Ritratto del compositore da Frankenstein
Jean-Jacques Nattiez

Andrea Liberovici è un compositore del suo tempo. Lui stesso dice di sé d’essere un «moderno». Si dovrà intendere moderno come contemporaneo del giro di secolo, perché il musicologo non esiterà a classificarlo come un rappresentante, molto dotato, della estetica e dello stile del post-modernismo musicale, e come tale ancoratissimo all’attualità, edonista, ludico, eclettico, scettico e incline ai prestiti dal popolare. Ciò nonostante le sue opere ci raccontano la tragedia dell’umanità postmoderna. Si potrà cogliere nel suo Frankenstein Cabaret una metafora del compositore d’oggi. Secondo quanto suggerisce esplicitamente nel suo progetto il compositore i diversi generi musicali corrispondono a diverse parti del corpo umano. Una canzone d’amore sta dalla parte del cuore, ovviamente, una seriosa musica colta e d’autore sta dalle parti della testa e del cervello o intelletto, una musica ritmica fa capo ai piedi e ai suoi movimenti, e così una respirazione ansimante se la fa col sesso, un’arcata del violino si allaccia all’idea del moto d’un braccio, e così come il soffio di un sospiro ci dà a vedere una bocca. Tutte queste cose ci sono nell’opera di Liberovici. Frankenstein, l’eroe di Mary Shelley, come si sa, costruiva mostruose creature a partire da pezzi di cadavere. Come tanti altri autori del postmoderno, Liberovici, come una iena, un avvoltoio o un vampiro, non ha scrupolo di strappare ai generi musicali e alle culture del passato e dell’oggi scaglie e brandelli diversissimi: una linea melodica tonale di un violino (La-La-Re-La-Sol), un ritmo rock, un cantabile di Grappelli, dei suoni concreti nientaffatto misteriosi (contro ogni vanteria di purificazione del suono, à la Pierre Schaeffer), dei botti sordi, dei suoni elaborati secondo le migliori tecniche acusmatiche, una nenia, una canzoncina sentimentale, un grido, un grugnito, un frinìo o altro borbottamento d’insetto, una voce umana in ispirazione e in espirazione, qualche frase in francese detta con accento deliziosamente italiano (anche quando si tratta di testi della Shelley romanziera o di Shelley, il poeta romantico: altra occasione per ingarbugliare la pista dei sessi), qualche altra in inglese, qualche altra in italiano… Per non dire dell’erotismo violento della voce d’Ottavia Fusco, androgina quanto basta, nel timbro, per turbare chicchessia. L’estetica del mèlange potrebbe mirare al comico o divenire ironia. Niente di tutto questo, cosi come non si distingueva, nelle sue rappresentazioni classiche e romantiche, l’amore platonico dall’amor celeste, dal carnale e dal porno, e il musicista confondeva un po’ tutto: i brividi del corpo, con i sentimenti profondi, le svenevolezze della midinette con la passione sincera, l’ambiguità sessuale con il piacere bestiale o affettivamente disimpegnato. In questo senso Liberovici è un compositore realista che ci aiuta a trovare immagini prive d’ogni idealismo. Le nostre relazioni sessuali o amorose con l’altro, non sono forse alternativamente o simultaneamente, materialmente, tali?

Con Frankentein Cabaret le diverse componenti del nostro sentimento e le reazioni del nostro corpo, così come le nostre idee, vengono a non essere più separate in compartimenti confortevoli e stagni, ma vengono ad essere sottoposte a una permanente mutazione, assecondando, in questo, un precetto preso a prestito da Percy Bysshe Shelley, che ben lo dice (e il musicista ce lo sottolinea): Solo la mutabilità dura! Nought [sic] may endure but mutability! Nel rimescolando tutto ciò Liberovici non ha paura. Come dice Frankenstein: «Se non riesco ad ispirarvi amore, ebbene, lasciate che vi faccia paura!» (così in Mary Shelley). In effetti quel che l’autore ci propone è che di noi stessi ci prenda la paura. Frankenstein Cabaret è una musica paurosa, non soltanto perché il compositore si è preoccupato di farci sentire un mostro musicale, bastardo e conturbante, ma perché la sua musica ci costringe a confrontarci con i nostri più intimi conflitti negli abissi più foschi delle profondità del nostro Ego.

Nell’incastro di inglese e tedesco nel titolo, Electronic Lied, utilizzando le tecniche di Frankenstein, Liberovici fa un altro passo avanti. Ossia ci mette di fronte alla più terribili delle condizioni: la nostra solitudine. Si tratta della prima opera nella storia della musica ad essere ispirata da Internet, più precisamente dalla posta elettronica. Se il compositore non lo avvertisse l’ascoltatore forse non saprebbe di che cosa si tratta, è vero, ma che sarebbe accaduto a Berlioz se non avesse distribuito al suo pubblico col programma della Symphonie fantastique il contenuto più intimo della sua opera? Non è stato grazie al poemetto di Goethe pubblicato in testa alla partitura che Dukas ha potuto raccontare lastoria del suo apprendista stregone? Nel suo Lied Liberovici ha voluto rappresentare le imprevedibili destinazioni dei messaggi nella rete, gli appuntamenti inattesi, gli incroci delle voci immaginarie e l’anonimato di chi scrive, chissà da dove, inaccessibile in persona al ricevente, là, oltre il video. Il Lied è scandito in sei tempi.

1. Anonimity (0-7’42”): dei rumori astratti, dapprima, delle risonanze incorporee, delle sonorità violente, che evocano un mondo disabitato, poi le prime voci lontane («Hì!») che innescano un dialogo fra i server interagenti. Chi parla? Chi scrive? Dopo suoni dall’aspetto sidereo, dopo le voci in eco fra gli slanci prepotentemente polifonici, riusciamo sentire distintamente soltanto degli «Io sono». Fose un tentativo disperato di affermare una presenza oppure l’abortita enunciazione di una identità?

2. Asynchronicity (7’43”-8’44”): esseri o creature impediti al contatto, intrusioni e incorporazioni di vocaboli incomprensibili.

3. Invisibility (8’45” – 15’03”) suoni elettronici puri cui seguono sibili, gemiti e campane. Si sentono chiaramente dei «Dove sei?» cui rispondonoincomprensibili delle voci lontane. E ancora la domanda: «Dove sei?» su di un lieve tappeto di soffi e note di vibrafono. L’uomo, o la donna, senza volto, il cui scritto appare sul video, sono no where, perduti nella infinità cyberspaziale.

4. Neutralizing of status (15’04’’- 16’46’’) dei colpi secchi, una voce incomprensibile, delle grida colorate, poi, ripetuto più volte : «Fuck me!»; il corpo desiderante reclinato nell’irreale contatto elettronico, lancia in rete il suo allarme disperato, non sapendo più dire: «Amami».

5. Regression (16’47’’-18’53’’) risonanze di uno sgocciolìo, flessione dell’Io sul Sé, emissioni ansimanti, voce a bocca chiusa… una masturbazione? Ripetizioni di: «Io», come per continuare ad esistere nel deserto della rete.

6. Solipsistic introjection (18’54’’-21’50’’) ritorno alle atmosfere sonore dell’inizio, suoni acuti, vibrazioni di chitarra, alcuni «Hì!», vaghi rumori, scrocchi, e poi nulla più.

La lezione è abbastanza esplicita: eccoci qua, ridotti nei rapporti con l’altro allo stato della pura esistenza virtuale, condannati al piùfittizio dei dialoghi. Ascoltando Electronic Lied ho immaginato un romanzo che non avrò mai modo di scrivere: un uomo e una donna intraprendono una corrispondenza elettronica, senza conoscersi, il giorno in cui finalmente si incontrano si scoprono essere la donna un uomo e l’uomo una donna. Quel che abbiamo creduto essere uno dei più straordinari strumenti di scambio esterno èinrealtà un mezzo di comunicazione con l’inconscio. Ed il nostro mondo interiore è il nostro interlocutore invisibile. «Net is a mirror», ci dice Liberovici. Per questo, come dicevo, egli si rivela un musicista “tragico”, un compositore tragico-postmoderno che ci narra dell’uomo e della donna messi a confronto con l’assurda e insopportabile solitudine cui l’onanismo d’Internet confina sempre di più l’ umanità. Grazie, Mister Gates. Che aspettiamo a far fuori i nostri PC?
Jean-Jaques Nattiez