RECITAR CANTANDO
Andrea Liberovici

Scrivere di Rap ora che ne sono così coinvolto è piuttosto difficile e rischio di fare gli errori di certe mamme con in braccio un pupo orrendo e con in bocca la totale perdita d’obbiettività. Però posso raccontare le ragioni che mi hanno spinto al rap e quelle che mi hanno fatto comporre Rap.

Il rap fa suonare qualsiasi suono, coerente o programmaticamente incoerente alla “storia”che ci racconta, esattamente come il “sogno” usa qualsiasi materiale visivo e non solo, per la propria rappresentazione. Per queste ragioni Rap è uno spettacolo sul sogno, perché nel metodo stesso di comporre un rap esistono molte analogie con il “metodo compositivo” fatto di libere associazioni e metamorfosi del sognare. Rap non ha quindi una storia ma è composto da molte storie musicali, intuitive, nate più dalle ragioni di un suono o dal ritmo interno della parola piuttosto che da aristoteliche griglie narrative.

Questo genere musicale a differenza di altre espressioni recenti come il rock, il punk, il grunge ecc, ha reinventato e fuso insieme, probabilmente in modo involontario, vissuti musicali molto lontani fra loro come il recitativo o recitar cantando seicentesco, la musica concreta contemporanea, la cultura nera americana e tutta una serie di piccole trasgressioni creative stimolate dall’uso di nuovi strumenti musicali come i campionatori, i programmi d’informatica musicale, gli studi d’incisione, le stanze d’eco, ecc… giungendo così ad un alta complessità d’ipotesi interpretative ricca di fascinazione.

Questa libertà di scrittura, pur nel suo essere diventata immediatamente “genere” e quindi in qualche modo inaridendosi, (se è vero come dice Cocteau che: ”…l’artista rivoluzionario viene prima ignorato,poi beffeggiato e quando questo non funziona cercano di sopprimerti coprendoti d’onori”)ha legittimato però, proprio perché fenomeno commerciale, qualcosa che era nell’aria da tempo e che, a mio avviso, motiva e giustifica il senso profondo del fare musica: il gioco.

Non amo la retorica sulla spontaneità giovanile, ne quella sul ritorno all’infanzia, stò bene così, il gioco a cui mi riferisco è chiaramente il gioco complesso della composizione, in questo caso non soltanto della musica ma di uno spettacolo.

Interessato al sogno come contenitore appunto, del gioco, ho cominciato a frequentare la letteratura del caso, da Artemidoro a Jouvet, Freud ecc…trovando però nella letteratura “minore” (ovvero i libricini dell’interpretazione dei sogni e il gioco del lotto, la Smorfia ecc.) gli elementi teatralmente e musicalmente più stimolanti.

In una delle prime e timide lettere a Sanguineti riportavo questo esempio tratto appunto da un libro di sogni e gioco del lotto:Drago (Sogno) = una cattiva suocera (Interpretazione) = N°69 (Destino)Tre voci per e di un unico soggetto,possibile personaggio; la voce del “Sogno” che è la “verità” (un rap naturalistico???) la voce dell’“interpretazione” (un rap straniato???) e la voce del “destino” che determina e mischia le carte a “caso”, giocando.

Tre voci che sono poi diventate, seguendo un movimento circolare di riflessi e rimandi, quelle di Ottavia Fusco, di Enrico Ghezzi e la mia, al servizio di un unica e principale voce: la parola del poeta/personaggio.

Sanguineti, quando si dice che non s’inventa mai nulla di nuovo, aveva già lavorato almeno una decina d’anni fa sulla Smorfia napoletana scrivendo un libro in prosa barocca intitolato “Smorfie” utilizzato poi come canovaccio di Rap.

Per restare in questo clima di casualità e analogie, io desideravo, come ho poi fatto, scrivere parte della musica per quartetto d’archi (da manipolare e campionare) per le possibilità degli strumenti ad arco di suonare i quarti di tono ed i microintervalli così simili a certe modulazioni del parlato.

Il professore nel 1965 (all’epoca avevo tre anni e giuro mi è sfuggito) pubblicava “Traumdeutung” (testo teatrale che prende in prestito il titolo originale de “L’interpretazione dei sogni”di S.Freud) per quattro attori davanti ad altrettanti leggii come fossero un quartetto d’archi. La composizione delle musiche si è quindi formata (fra coincidenze, numeri del lotto e momenti di panico) tenendo ben presente come punto di partenza il rap ma focalizzando la ricerca sulle più vaste possibilità ritmiche (binarie, ternarie, casuali) del parlato e del recitato.

Il mio interesse per il ritmo del parlato/recitato nasce nel 1987 durante le prove di uno spettacolo con la regia di Giancarlo Sbragia. Sbragia fermò un’attrice che, si dice in gergo cantava le battute e gli spiegò che per creare interesse non doveva cercare intonazioni, note, gorgheggi, ma semplicemente creare degli ostacoli al ritmo, spezzarlo, sincoparlo, come fa naturalisticamente il pensiero nel suo formularsi e svolgersi (incontrando frammentazioni, sospensioni, accelerando ecc.) prima di diventare suono compiuto. L’assemblaggio scenico è avvenuto in modo oserei dire logico e funzionale alla drammaturgia musicale.
La regia era in qualche modo già avvenuta nella composizione del materiale sonoro e poetico. Ovviamente il rapporto creativo con tutto il ristretto staff di amici e collaboratori ha completato e notevolmente arricchito lo spettacolo.

Che dire di più?
Desidero ringraziare Sanguineti per questa opportunità e per avermi incoraggiato a giocare.