LO ZOO DI VETRO: NOTE DI REGIA
Prima di lamentarci delle guerre che insanguinano il mondo dovremmo guardarci in faccia, nello specchio del nostro salotto?, questo sembra dirci Tennessee Williams con Lo zoo di vetro. La sua è una visione feroce, lucida, vissuta in prima persona, di un interno familiare bombardato dall’egoismo come unica chiave d’interpretazione del mondo, come unico, disperato ormeggio per la sopravvivenza.
Ma i Wingfield, più che sopravvissuti, sono dei mai-vissuti: abbandonati dal padre, senza mezzi economici, minacciati dalla distruzione di una rispettabilità piccolo borghese, di una middle class assunta a modello planetario, continuano ad umiliare i propri sogni, inevitabilmente, con metodica tensione autodistruttiva. La famiglia Wingfield è una famiglia che ha fallito nelle sue aspettative e, come spesso accade nelle dinamiche familiari, non tanto per drammatici eventi esterni ma per incapacità profonda ad accettarsi e ad amare. Ecco questi caratteri, per certi aspetti estremi, e nello stesso tempo così reali in molti nuclei familiari, si muovono come spettri sulla scena con l’unico scopo di preservare un’idea d’identità.
The play is memory. In memory everything seems to happen to music. T.W.
Ma l’elemento che più mi ha colpito ed affascinato nel testo di Williams è la collocazione scenica, ampiamente segnalata dalla prefazione dell’autore ma generalmente dimenticata dagli allestimenti teatrali classici, di questo frammento naturalista. Una collocazione affatto naturale appunto, ma metafisica. L’impietosa scrittura dei dialoghi, così verosimili e dettagliati, viene collocata da Williams stesso nello spazio astratto, senza muri, senza interni piccolo borghesi, senza decor, della memoria. La memoria del narratore – figlio Tom (sorta di doppio dichiaratamente autobiografico dell’autore) diventa così eco di una memoria più grande, che ci comprende. I conflitti madre-figlio, sottratti alla polverosa presunta verosimiglianza dei fondali teatrali dipinti, si trasformano in voce primitiva, sotterranea ed inconscia, voce di un dormiveglia dai confini dilatati in cui le relazioni fra i personaggi collocati in un vuoto carico di segni (sempre su indicazioni di Williams proiezioni, musica, scritte ecc.) perdendosi, si definiscono.
Inoltre Williams, da scrittore cinematografico quale era, ci racconta tutto attraverso una sorta di soggettiva di Tom (non a caso amante del cinema come fuga attraverso il sogno) ed è il suo sguardo e sono i suoi flashback che ci conducono in questo labirintico percorso a ritroso. La voce di Tom, della narrazione, non segue infatti la linearità delle convenzioni teatrali ma si muove a flussi: è ?memoria che nasce dalla musica?.
Per questa ragione (mai così fedele prima d’ora alle indicazioni dell’autore) ho immaginato una grande scena vuota con un unico elemento gigantesco che l’attraversa: la spirale-tromba del grammofono da cui tutto nasce, si trasforma in immagine, e si perde. Mettere in scena questo testo è come mettere in scena un ossimoro ed è questa però, a mio avviso, la vera intuizione e la vera grandezza di Williams: la convivenza fra il minuscolo spazio interiore dei personaggi e la sua proiezione deflagrante nel buio. Per questa ragione, per sottolineare queste distanze, il modello recitativo su cui sto lavorando è più un modello cinematografico che teatrale. Il microfono è, come sappiamo, il microscopio con cui rivelare il primo piano emotivo, quindi nessuna voce impostata ma ricerca ed amplificazione innanzitutto dei silenzi e del respiro. In questa avventura, con questa impostazione, non poteva che essere assolutamente perfetta un attrice come Claudia Cardinale per il ruolo di Amanda. Il timbro della sua voce, prima ancora della sua maestria nel
saperlo utilizzare modulandolo dalle frequenze più gravi fino ai limiti dell’inaudibile, è già lo spettacolo.
Andrea Liberovici