Philharmonie di Parigi – 7 settembre 2016
Intervista per programma di sala a cura di Sandrine Pique

Il tuo spettacolo si chiama “Faust’s box”. Dove si colloca il libretto? In un dopo Faust?
C’è un suggerimento di Bertolt Brecht che mi ha sempre guidato, come una bussola, nel mio lavoro: “Non costruire sul buon tempo passato, ma su quello cattivo di oggi“. Ma per costruire c’è bisogno innanzitutto di sforzarsi e di comprendere, per quanto possibile, di che materiale è fatto il terreno su cui affondare la pala. E per avviare una riflessione su questo cattivo tempo presente non conosco altri metodi se non quello d’approfondire la mia conoscenza del passato. Come potrei infatti tentare di pormi dialetticamente con quest’unica ideologia dominante e invasiva nel suo prepotente e costante monologo propagandistico, se non utilizzando dei termini di paragone e di prospettive più ampi? Nostalgia del classico e del buon tempo passato? No, semplicemente desiderio di provare a capire in quale punto della storia l’uomo è sparito. E i perché. In quale punto della storia l’essere umano ha perso la sua centralità nell’indagine culturale, politica, sociale ecc. assumendo la duplice fisionomia che più o meno tutti conosciamo di consumatore, da una parte, e di “farsi oggetto“ del consumo dall’altra, in una sorta di fluttuazione costante fra “essere o non essere“… un prodotto.

A proposito di Amleto, l’idea di “Faust’s box” ha cominciato a farsi strada nei miei pensieri nel 2003 proprio grazie al celebre monologo shakespeariano e al “grande vecchio“ del teatro italiano Giorgio Albertazzi.
Albertazzi doveva fare un recital, un collage di monologhi classici, e mi chiese se avevo qualche suggerimento da dargli per il monologo dell’Amleto. Erano molti anni che lo recitava come da presunta tradizione, ovvero tenendo in mano un teschio, e voleva giustamente cambiare.

Ci pensai un po’ e quindi gli suggerii di sostituire il teschio con una piccola telecamera collegata in diretta a un grande schermo alle sue spalle e di guardare “negli occhi“ lei, la telecamera, durante il monologo, come se guardasse il teschio. L’immagine di Amleto proiettata dietro alle sue spalle durante “l’essere o non essere“ fu dirompente. Il “non essere“ del monologo, inteso da Shakespeare come morte, acquisì se è possibile, addirittura un ulteriore significato simbolico: il “non essere“ in vita. Vale a dire vivo ma sospeso in una condizione virtuale.

Così, se fino a quel momento avevo pensato alla virtualità come a una modalità comunicativa, in un attimo ne percepii anche tutte le potenzialità tragiche e comiche intrinseche al mezzo, fra cui appunto la possibile conseguente dannazione di una vita vissuta per interposta rappresentazione/immagine in una sorta di costante non essere. E pensando a una dannazione non ho potuto che associarla al suo archetipo occidentale, il Faust di Goethe e la sua ricerca della felicità.

In questo cattivo tempo presente la felicità è ancora un tema all’ordine del giorno, come lo era per Goethe, o è stata totalmente rimossa e delegata al feticcio/status che riusciamo a permetterci col nostro denaro? E di conseguenza, l’idolatria del feticcio, è da intendersi veramente come progresso, così come ci viene suggerito ad ogni angolo globalizzato, o come età della pietra?
“Oro e piacere sessuale: a questo si riduce la saggezza del Satana goethiano, che mira – con l’aiuto della magia e del cinismo di Mefistofele – all’abbrutimento dell’umanità, alla creazione di un regno animale dello spirito” ci dice G. Lukacs nei suoi Studi sul Faust. Come si deduce da questa breve citazione e interpretazione, il Faust di Goethe può essere un potentissimo strumento d’indagine sul presente.

Faust’s box, per arrivare finalmente alla risposta, non ha assolutamente la folle ambizione di riscrittura “in chiave
moderna“ (definizione che mi fa rabbrividire solo a pensarla) del Faust goethiano. Per carità! Dell’opera incommensurabile, come Goethe chiamava il suo Faust, m’interessano le domande che si è posto e che ci continua a porre sull’essere umano come fondamento centrale della sua poetica.

Che esseri umani siamo diventati in questo cattivo tempo presente?

 

Di questo spettacolo sei compositore, librettista e regista.  È un nuovo modo di pensare al “Teatro del Suono“ su cui hai lavorato molti anni?

Mi rendo perfettamente conto che tutti questi ruoli applicati a una singola persona possano dare l’impressione di un ego debordante e apparentemente di gran lunga superiore, per quanto possibile, all’ego tragico del Dott. Faust! Non è così… lo giuro. È esattamente il contrario. Sono piuttosto consapevole della sventura dell’ego tanto che, oltre a lavorarci sopra giornalmente per cercare di sottrarmi alla sua dittatura, ho scelto l’Ego stesso come protagonista di questo lavoro in quanto oggetto della dannazione.

Occuparmi di queste varie discipline, oltre a essere mia materia di studio e ricerca ormai da molti anni, fa parte di una mia idea sulla fisionomia del compositore in quest’epoca audio- visiva abbastanza precisa, e anche in questo caso nata da una riflessione sulla realtà. L’eredità delle meravigliose crisi e metamorfosi linguistiche del ‘900 ha contribuito a far emergere nei sistemi di produzione culturale e nei nuovi creatori svariate reazioni che, non avendo qui lo spazio per entrare nel dettaglio, potremmo forse definire attraverso due modalità.

Da una parte, inducendo a una sorta d’inibizione e rimozione con i conseguenti tentativi di restauro e, dall’altra, a un eccesso di specializzazioni gergali e di “isole linguistiche chiuse dentro ad uno specifico idioma, utilizzato sovente non come sapere condiviso ma come forma di potere“, come sostiene il critico d’arte Gillo Dorfles riferendosi alle arti visive.

 

Che cosa sono i 507 generi musicali segnalati oggi da Wikipedia, dal Gregoriano al Medieval Metal, se non un arcipelago di isole identitarie in cui spesso, per fortuna non sempre, ci si crogiola in rassicuranti e frigide saturazioni linguistiche composte da grammatiche che parlano di grammatiche?

Rispetto a questa logica di mercato applicata alle arti mi sono sempre sentito inadeguato. Per questa ragione, come compositore, ho approfondito il teatro. Il teatro, peraltro come sappiamo nato dal suono e dalla poesia, è l’unica disciplina artistica la cui esistenza, al di là dei generi, presuppone un atto generoso. Il teatro può esistere soltanto se ci sono almeno due persone che decidono di mettersi in relazione. Ora non è che il teatro con la globalizzazione se la passi meglio della musica ma, rispetto alla musica, ha l’obbligo dell’altro. Per questa peculiarità e per le sue caratteristiche multidisciplinari, ritengo che l’arte teatrale possa essere uno straordinario strumento per tentare di uscire dal solipsismo tipico delle isole linguistiche chiuse. Pina Bausch e Mauricio Kagel, fra i grandi del ‘900, hanno reso evidente questa straordinaria possibilità e funzione del teatro.

Il Teatro del Suono, che ho fondato nel 1996 grazie al fortunato incontro con il poeta e scrittore Edoardo Sanguineti (1930-2010), già autore di Luciano Berio e Luca Ronconi (quindi musica e teatro) ha al centro della sua ricerca alcune di queste riflessioni.

Così, per amor di sintesi, quando qualcuno mi chiede: fai teatro? Rispondo: no faccio il compositore. E quando qualcuno mi chiede: fai il compositore? Rispondo: sì, faccio teatro. Faust’ s box è indubbiamente una tappa di questa ricerca.

 

Dici di scrivere fra le “rovine del pop“. Cosa intendi con questa affermazione?
Quando parlo di macerie del pop voglio semplicemente dire che il pop in generale, dopo aver creato indubbiamente anche dei capolavori, ha smarrito la sua art . L’ unica funzione rimasta è quella di comunicare, attraverso il linguaggio, la sua ideologia: vendere merci o vendere se stesso .

Non so se hai presente quelle enormi isole di spazzatura, enormi quasi come continenti, al largo degli oceani.
Gigantesche distese di bottiglie e sacchetti di plastica uno sull’altro a cancellare il mare. Ma il mare esiste, non si vede ma esiste, è li sotto e malgrado tutto sopravvive. E sopravvive, non soltanto per la profondità e le dimensioni ma anche perché c’è una vita marina che ha imparato, per non morire, a nutrirsi di rifiuti.

A me interessa musicalmente e drammaturgicamente utilizzare il pop, lingua dominante, come “esca narrativa“ per avviare una riflessione sulle svariate declinazioni, non soltanto estetiche, del dominio.
Per tornare al Maestro, Goethe ha definito le scene del suo Faust (fra le tante definizioni che ne ha dato) come una serie di ballate popolari chiuse in se stesse, adottando poi all’interno di ogni singola ballata, differenti modalità di scrittura (cosiddetta “alta“, “bassa“ ecc.). Questo approccio tipico di alcuni classici e del teatro, che nulla ha a che fare col collage post-moderno ma bensì con la costante ri-scrittura volta a parlare all’uomo della propria contemporaneità, è l’unico insegnamento estetico che riconosco come tale e che desidero imparare. Ho molti amici compositori con una specie d’ossessione per il cosiddetto stile. Questo argomento non mi è mai interessato come argomento a se stante. Se ho qualcosa di sincero da dire troverò la modalità (stile?) per dirla. Mentre se non ho nulla da dire… nessuno stile mi proteggerà.

Colloquio di Sandrine Pique con Andrea Liberovici per il programma di sala per la Philharmonie di Parigi 17 settembre 2016.