Programma di sala del Romaeuropa Festival 2019
a cura di Mattia Palma

Andrea Liberovici è un compositore. Quindi fa teatro, secondo una poetica che mescola i due piani, grazie a cui può allestire una Trilogy in Two: tre atti in due tempi per spaziare da Faust a Florence Nightingale no a Venezia, alla ricerca della bellezza. Cosa tiene insieme le tre parti dell’opera?
Volevo provare a rintracciare ciò che rimane della cosiddetta “identità europea“, recuperando il canone di una bellezza in cui l’interlocutore fosse ancora l’essere umano. Il titolo suggerisce tre possibili modelli. Anzitutto Faust, personaggio letterario che si identifica con Mefistofele, almeno nella lettura di Lukács, sempre più attuale oggi che non siamo più sociali ma “social”: per questo ho immaginato un Faust che si nutre solo di prodotti e fantasmi rinchiuso nel suo “box” (Faust’s box è il titolo di questa prima parte, già presentata nel 2016 alla Philharmonie di Parigi, al Festival Musica di Strasburgo e al Teatro Nazionale di Genova ndr). Invece Florence Nightingale, fondatrice della moderna assistenza infermieristica, ha un’attitudine opposta, perché ha codificato un’azione: aiutare gli altri. Ho quindi pensato a un breve tableau vivant che richiama la Pietà di Michelangelo. In ne ho voluto inserire un riferimento a Venezia come architettura dell’ascolto, in una sorta di minuscola “cantata” con recitativi e “madrigali” ispirati a compositori legati alla città: in primis Andrea Gabrieli e Giovanni Gabrieli.

 

Come si racconta la bellezza di Venezia?
Ho immaginato un dialogo surreale tra un personaggio e degli oggetti in una casa, sul modello geniale e ovviamente irraggiungibile dell’Enfant et les sortilèges di Ravel e Colette. Solo alla ne si capirà che il luogo in cui ci si trova è Venezia, che per me è come uno strumento musicale: un luogo dell’ascolto che permette di accedere alla propria interiorità, come in una camera anecoica dove si sente esclusivamente se stessi.

L’interiorità come conclusione del percorso di questa “Opera mosaico”. Non è un percorso dichiarato. Ma a parte il secondo movimento, che è più immediato, gli altri due sono costruiti con tanti tasselli che solo alla ne rivelano la loro struttura. Per questo ho voluto quel sottotitolo, anche se nella musica la dimensione del tempo rende più difficile la visione d’insieme tipica di un mosaico. Quello che mi aspetto è che, giunti all’ultimo tassello, si possa scorgere il disegno complessivo con una sorta di carrellata all’indietro.

 

Quanto alla parola “Opera”, che senso ha oggi?
Se parliamo di “Opera”, il Novecento ci ha consegnato un’impossibilità con un’unica via d’uscita: la parodia. Parodia che può essere meravigliosa, come Le Gran Macabre di Ligeti. Perché il problema nodale, non ancora risolto, è come trattare il canto. Per capirci, mi chiedo se abbia ancora senso la voce impostata in un’epoca in cui i microfoni hanno cambiato il nostro modo di percepire non solo il canto, ma anche la narrazione e quindi i personaggi. Chi vuole scrivere un’opera oggi deve sapere a chi si rivolge, tenendo conto del cambiamento antropologico che c’è stato.

 

Lei parla spesso di “transdisciplinare”. Rientra in questo discorso?
Sì, perché non si può affrontare un lavoro artistico senza accorgersi che abbiamo tutti l’illusione di essere dei fotografi , dei cineasti, dei musicisti. Del resto basta avere uno smartphone con i programmi giusti. A me interessa riferirmi a tutti questi aspetti illusori per tentare di metterli in crisi, mostrandone la fragilità. Solo
così posso pensare di costruire qualcosa: e un’opera credo debba servire a creare dei dubbi, a far sorgere delle domande. Per le risposte c’è l’intrattenimento che, pur con la sua utilità, non è certo arte. Non bisogna rifiutare il tempo in cui si vive, ma servirsene per riuscire a relazionarsi con il pubblico.

 

Cosa impedisce a molta musica contemporanea di arrivare al pubblico?
Le rispondo con una meravigliosa frase di Bertolt Brecht che utilizzo quando mi perdo: “Non costruire sul buon tempo passato ma sul cattivo tempo presente“. Ho scoperto che ci sono oltre quattromila generi musicali catalogati. È un risultato inquietante del capitalismo, che spinge inevitabilmente il compositore a costruirsi una personale nicchia di riferimento, con dei codici precisi, per poter lavorare. Manca spesso la visione d’insieme del corpo musicale: anni fa ho scritto un pezzo, Frankenstein Cabaret, che rifletteva sulle musiche pensate per piccole porzioni del corpo, dalla musica per il “cervello“ a Elvis “the Pelvis” che non ha bisogno di spiegazioni. Ci troviamo nel paradosso di poter utilizzare ogni musica possibile, quella che io chiamo “musica larga“ e che nulla ha a che fare con il postmoderno ma casomai con la prassi compositiva classica della riscrittura, ma ci chiudiamo all’interno di svariate iperspecializzazioni.

 

La soluzione è il teatro?
Il teatro obbliga alla condivisione. Mi viene in mente l’esempio di Pina Bausch, che ha iniziato le sue ricerche sul corpo in un momento di codificazione molto precisa della danza e ne ha recuperato l’aspetto comunicativo. Nel mio caso il teatro è un ottimo insegnante di composizione in quanto ti obbliga a due domande fondamentali: perché e per chi sto scrivendo?

 

Non le interessa la musica “pura”?
Mi viene in mente la differenza tra la medicina e la ricerca di laboratorio. La ricerca è fondamentale, senza la ricerca non esisterebbe l’antibiotico, ma le due cose devono andare insieme. La ricerca fine a se stessa è spesso un gesto narcisistico così come la pillola nata dal nulla è soltanto un placebo. Sarà per la mia formazione teatrale, ma il passaggio dalla riflessione con se stessi alla costruzione di un oggetto per gli altri è fondamentale, almeno per me. Per fortuna oggi siamo più democratici: con tutto il rispetto non c’è un Adorno che accusa Britten di scrivere musica modesta. Basta che nessuno mi chiami classico contemporaneo.

 

Come mai?
Perché i classici sono morti e i contemporanei sono vivi. Il genio che ha inventato questa definizione ci sta dicendo, di fatto, che siamo dei “morti viventi“. Invito quindi “vivamente“ i musicologi in ascolto ad inventare un’altra definizione.

 

A proposito di “classici”, ho letto che Edoardo Sanguineti, con cui ha collaborato a lungo, le suggeriva di studiarli bene per poi dimenticarli.
Il passato è importante, ma non deve diventare un feticcio: bisogna mantenere con esso un rapporto dialettico. Per questo mi interessano le domande e le inquietudini
sotterranee di giganti come Goethe, perché sono le stesse che abbiamo adesso. L’essere umano è un luogo che si interroga ed è proprio attraverso questa azione che nasce il seme della bellezza. Oggi è più difficile. Dobbiamo sforzarci di superare il junk food con cui, volenti o nolenti, nutriamo il nostro immaginario e dopo sessant’anni di “Campbell’s Soup”, per quanto seducenti e meravigliose, non è semplice… ho idea però che questa saturazione pop ci stia trascinando in una sorta di post mortem del postmoderno.
E non credo sia una brutta notizia.